Introduzione alla Psicologia dello Sport/1

Introduzione alla Psicologia dello Sport/1

Prima parte – importanza dello sport in età evolutiva.

E’ probabile che uno sportivo, un genitore di un giovane atleta, un allenatore interessato o incuriosito dalla psicologia dello sport si ponga principalmente due domande:

1) Chi è lo psicologo dello sport?

2) Nella mia esperienza di sportivo, allenatore, genitore o in quella dei miei figli o giovani allievi in cosa può essere di aiuto lo psicologo dello sport?

Fornire a queste domande una risposta esauriente può risultare più complicato di quanto sembra se prima non ci preoccupiamo di compiere almeno tre azioni.

  • Sbarazzarci del principale motivo di confusione riguardanti la figura dello psicologo.
  • Possedere un’idea sufficientemente chiara e completa del valore che la pratica sportiva ha assunto, soprattutto ai giorni nostri, per lo sviluppo individuale in età evolutiva.
  • Mettere da parte alcuni “luoghi comuni” sul lavoro dello psicologo dello sport.

Partiamo dalla prima. Se la parola “psicologo” porta subito alla mente termini come “malato”, “matto”, “cura”, “debole” siamo completamente fuori strada e, per capire di quanto, chiediamo aiuto ad una semplice immagine.

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Osservando la pianta rappresentata e mettendo ognuno di noi in relazione con questa possiamo dire che i rami più alti e rigogliosi rappresentano tutte le caratteristiche personali, di diversa natura, che siamo riusciti o riusciremo a sviluppare al massimo o quasi delle loro potenzialità. Rientrano tra queste tutto ciò che definiamo generalmente come talenti, capacità, qualità, pregi, punti di forza : “sono una persona determinata”, “sono un buon ascoltatore”, “sono veloce”, “cucino molto bene” e così via.

I rami secchi raffigurano invece tutti gli aspetti che ci ritroviamo a definire solitamente difetti, limiti, incapacità, punti deboli : “sono insicuro”, “non sono paziente e mi arrabbio facilmente”, “sono lento”, “in cucina sono un disastro” e via dicendo.

Alle estremità di questi rami collochiamo ciò che possiamo ritrovarci a definire come “disturbo” o “patologia”, come ad esempio: “ho delle crisi d’ansia che mi condizionano pesantemente”, “sono soggetto ad attacchi di rabbia incontrollabile”.

I rami centrali descrivono infine la maggior parte delle caratteristiche di ognuno di noi: tutti aspetti, di diversa natura, che non sono cresciuti, generalmente, al massimo delle loro potenzialità, pur avendo raggiunto livelli di sviluppo che permettono a questi, potremmo dire, di “germogliare” cioè di rappresentare potenziali fonti di benessere individuale: “spesso riesco ad essere una persona determinata”, “raramente perdo la pazienza”, “sono abbastanza veloce”, “non sono un fenomeno in cucina ma me la cavo” e così via.

Più la pianta è ricca di parti produttive e, soprattutto, rigogliose, maggiormente possiamo parlare di benessere psicofisico.

Lo psicologo può anche occuparsi all’occorrenza, se si è specializzato in psicoterapia, se la persona lo richiede e qualora se ne ravveda la necessità, dei “rami secchi”, ma è principalmente interessato a “dialogare” con le parti “funzionanti” e a favorire le condizioni affinché queste possano sviluppare il proprio potenziale al massimo livello possibile. Il suo, nella maggior parte dei casi, non è un intervento volto a “ripristinare” una condizione di benessere, dal momento che tale condizione spesso non è in realtà venuta a mancare, ma a “consolidarla” e “potenziarla”. In poche parole lo psicologo non pensa che “tutti siano da curare”.


Chiarito il primo punto, come dicevamo, ci rivolgiamo al secondo, fermandoci a riflettere su cosa ci porta ad affermare che mai come ai giorni nostri è importante possedere un’idea sufficientemente chiara e completa del valore che la pratica sportiva riveste soprattutto in età evolutiva.

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Esiste ormai una diffusa consapevolezza in merito all’importanza del movimento, soprattutto in età evolutiva, per lo sviluppo scheletro-motorio e muscolare dell’individuo e per il consolidamento di condizioni ottimali di salute. La cosa però non si ferma qua. Quella del proprio corpo in movimento, del movimento in uno spazio, del movimento in relazione con altri sono esperienze nelle quali affondano le radici la maturazione cognitiva dell’individuo, lo sviluppo delle proprie capacità emotive e di gestione delle emozioni, l’acquisizione delle competenze sociali.

Dalle esperienze quotidiane, dalla ricerca, dalla letteratura di settore emerge con sempre maggior evidenza il fatto che stili di vita caratterizzati da eccessiva “sedentarietà” in età evolutiva risultino meno “protettivi” nei confronti del potenziale sviluppo di problematiche riguardanti abilità cognitive come l’attenzione e la concentrazione, di carenze nelle capacità gestionali delle proprie esperienze emotive, prime fra tutte l’ansia e l’aggressività, di problemi comportamentali e di rischi maggiori nella possibilità di maturare una qualche forma di dipendenza.

Dal momento che lo sport è indubbiamente esperienza di movimento nel senso appena descritto occorre fare tutto il possibile affinché questo non solo sia praticato ma soprattutto non sia abbandonato da chi già lo pratica, perché quelle poche ore di pratica sportiva in cui il tal bambino o ragazzo è impegnato presso la tal società sportiva in cui alleno o in cui lo accompagno sono molto probabilmente le uniche ore in cui davvero si muove, in giornate piene di impegni scolastici, attività prevalentemente cognitive, videogiochi o simili, scarrozzamenti in macchina, distanza dai “pericoli” di strade e cortili.

Pur considerando inevitabile un mutamento di interessi e priorità nella vita dei giovani, quindi una componente “fisiologica” dell’abbandono “precoce”, pur dovendo considerare l’incidenza di fattori “esterni” alla pratica sportiva sulla rinuncia a questa, come ad esempio gli impegni scolastici, la maggior parte delle indagini rivolte ad approfondire quali siano le cause dell’allontanamento precoce dall’attività sportiva ci dicono che generalmente il bambino o il ragazzo abbandona lo sport che sta praticando, e soprattutto l’ambiente nel quale lo sta praticando, non tanto per un mutamento di interessi ma perché l’esperienza che sta facendo non è appagante o, in molti casi, è fonte di pressioni vissute come insostenibili sul piano soprattutto emotivo.


Con quanto fin qua detto dovrebbe risultare facilitata la terza delle azioni che ci siamo riproposti all’inizio, consistente nello sbarazzarci dei due principali luoghi comuni sulla figura ed il lavoro dello psicologo dello sport.

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1) Lo psicologo dello sport, in quanto psicologo nel senso precedentemente evidenziato, non interviene principalmente per “curare” atleti problematici o spogliatoi in crisi. Interventi di questo tipo, pur rappresentando notizie interessanti per articoli giornalistici che attirino attenzione e vendite, soprattutto se l’atleta o la squadra in questione sono noti e seguiti, sono soltanto una piccola parte di una realtà ben più vasta, nella quale lo psicologo dello sport è decisamente impegnato a promuovere, facilitare e consolidare benessere, non ad applicare terapie.

2) Lo psicologo dello sport non si occupa solo di collaborare con il campione, ad esempio, per massimizzarne le prestazioni, la capacità di concentrazione, di gestione dell’ansia, di recupero da un infortunio o da una prestazione negativa e così via. Gran parte del suo lavoro è rivolto ai giovani atleti, per i quali quella del “fare sport” deve essere un’esperienza piacevole, divertente, appagante, all’interno della quale sperimentarsi in crescita non solo dal punto di vista fisico e tecnico ma anche su dimensioni personali come l’autostima, la gestione delle proprie emozioni, la socializzazione e molte altre. Un’esperienza dove i termini “agonismo” e “campione” devono entrare in punta di piedi, nei tempi e con le giuste modalità e, soprattutto, non necessariamente per tutti.


A questo punto le risposte alle nostre domande iniziali, che chiariremo al meglio nella terza e ultima parte di questa introduzione alla psicologia dello sport, con un’attenzione particolare allo sport giovanile, richiedono una breve sosta, nella seconda parte delle nostre riflessioni, su una figura chiave dei nostri discorsi: l’allenatore.

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