Introduzione alla Psicologia dello Sport/2

Introduzione alla Psicologia dello Sport/2

Seconda parte: l’allenatore del settore giovanile.

Siamo partiti, nella prima parte di questa introduzione, ponendoci alcune domande che ora possiamo così sintetizzare, immaginandole “nella testa” di un qualsiasi genitore: “perché la Società sportiva frequentata da mio figlio, ha deciso di avvalersi della collaborazione di un professionista esterno ed in particolare di uno psicologo? C’è qualcosa che non va?”

Il quesito ci impone di rivolgere a questo punto la nostra attenzione su una figura chiave dei discorsi che stiamo sviluppando, quella dell’allenatore, punto di riferimento della preparazione fisica e tecnica dell’atleta ma anche modello di identificazione per la sua maturazione psicologica ed umana. Sottolineiamo fin da subito che questo ruolo non può essere oggetto di interpretazioni o prese di distanze, essendo inevitabilmente un punto di incontro tra le figure genitoriali, il sistema sociale, quello scolastico e i rapporti interpersonali tra pari dei giovani atleti di cui vuole farsi carico. L’allenatore è fatalmente investito, da parte dei giovani atleti di cui si occupa, di autorità e di affettività al contempo, a questa figura si richiedono direttive ma anche supporto e protezione, con i propri allenatori i ragazzi potrebbero tentare di “riprendere in mano”, funzionalmente al proprio benessere, dinamiche familiari non risolte.

Assumere questo ruolo non può prescindere quindi da una matura consapevolezza relativa alle responsabilità che lo caratterizzano e da doti personali, innate o acquisite, che, oltre a quelle di natura imprescindibilmente tecnica, consentano l’esercizio di un difficile e, per certi versi, potenzialmente logorante compito, pur se ovviamente carico di valore e gratificazioni. Per questi motivi un buon allenatore deve essere un buon leader, che abbia sviluppato autoconsapevolezza ed autostima, dotato di buone capacità empatiche, di ascolto e di comunicazione, da esercitarsi non solo verso gli atleti ma anche con gli altri componenti dello staff tecnico e dirigenziale e con i genitori, capace a lavorare in gruppo, in possesso di adeguate conoscenze riguardanti i bisogni, le motivazioni e le attitudini caratterizzanti bambini e ragazzi nelle diverse età o fasi evolutive ed abile nel porre sempre al centro dei propri interventi ogni singolo atleta con le peculiarità che lo caratterizzano e lo diversificano da tutti gli altri.

Questo lungo elenco di capacità, l’acquisizione e l’esercizio di queste da parte dell’allenatore e dell’intero staff tecnico e dirigenziale, rappresentano le fondamenta sulle quali costruire “edifici” in grado di contenere esperienze sportive divertenti, motivanti ed arricchenti che rappresentano anche gli unici “argini” realmente efficaci da contrapporre ai rischi dell’abbandono precoce dell’attività sportiva.

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In assenza di intenzioni, azioni e progetti volti all’edificazione o al consolidamento di fondamenta di questa indiscutibile portata, possiamo ritrovaci ad assistere ad uno o più dei seguenti possibili scenari negativi:

A) La riproposizione nel settore sportivo giovanile, che non possiede ancora, in maniera sufficientemente affermata e diffusa, un sistema proprio di obiettivi e di metodologie funzionali al loro raggiungimento, di modelli simili a quelle caratterizzanti il settore adulto. Il bambino, prima di essere un bambino che corre dietro ad un pallone, è già un piccolo calciatore, la bambina che salta e fa capriole su una pedana è già una piccola ginnasta: bisogna tirare fuori da loro tutto nel più breve tempo possibile, selezionare, condurre verso direzioni e con modalità che potrebbero non corrispondere ai bisogni, ai desideri, alle capacità ed alle prerogative di quel particolare bambino in quel peculiare momento del suo percorso evolutivo.

B) La proposta, all’interno delle 3 o 4 ore settimanali dedicate allo sport, di attività ripetitive, con contenuti ludici ridotti ai minimi termini e orientate principalmente verso un modello di agonismo più adulto che infantile, che confina la competizione nel contesto di quel dato evento senza farne, come per l’adulto, il fondamento della propria identità sociale.

C) Allenatori che, più in difficoltà sul versante affettivo/educativo che su quello della preparazione atletica, più competenti sugli aspetti tecnici del proprio sport che sulle fasi evolutive e sulle problematiche giovanili, si lasciano percepire dai propri giovani atleti come molto distaccati, o incuranti di quelle che sono le loro aspettative, soprattutto a livello umano, o poco disponibili all’ascolto e autoritari.

D) Allenatori “scarichi”, demotivati, con poca iniziativa e capacità di coinvolgimento, logorati dall’esercizio di un ruolo che entra inevitabilmente a contatto con molteplici fattori stressanti: le responsabilità nei confronti degli atleti, del loro benessere, della loro preparazione, le interferenze degli altri membri dello staff o della dirigenza, i rapporti con i genitori e con il pubblico, i problemi relazionali con i ragazzi o tra di loro all’interno del gruppo, il reperimento e la gestione di spazi e risorse, l’organizzazione di eventi, i rapporti con le altre società sportive.

E) Allenatori intimoriti, sconcertati, frenati dagli elementi di complessità di cui sono portatori attualmente bambini e ragazzi che provengono sempre più spesso da contesti famigliari difficili e frammentati o da culture diverse tra loro e dalla nostra.

F) Climi relazionali tra una parte o la totalità dei soggetti coinvolti (dirigenti, tecnici, genitori, atleti) caratterizzati da poca collaborazione, difficoltà comunicative, tensioni.

G) Atleti arrabbiati, demotivati, annoiati, poco attenti, indisciplinati, ansiosi, poco coesi.

Senza spendere ulteriori parole su questo è ovvio che ognuno di questi elementi, preso anche singolarmente, rappresenta un passo potenziale verso l’abbandono della pratica sportiva, della cui estrema negatività abbiamo accennato nella prima parte di questa introduzione.

Quanti diversi scenari, quanti fattori potenzialmente stressanti per l’allenatore con i quali entrare in contatto, quante capacità e conoscenze da mettere in campo: è giusto chiedere ad una persona, che ricopre generalmente questo ruolo per pura passione, che mette già in campo esperienza e competenze spesso di notevole portata, in condizioni di semi o totale volontariato, dedicando a questo gran parte del proprio tempo libero, di occuparsi da solo di tutto questo? Riusciamo a visualizzare per un istante quanto maggiori, in numero, implicazioni e complessità, siano gli elementi di cui stiamo parlando rispetto a quelli per i quali, giustamente, da tempo ci si avvale, parliamo sempre soprattutto di settore giovanile, della consulenza o dell’intervento del medico sportivo o, in tempi più recenti, ad esempio, del preparatore atletico o del nutrizionista?

Se esistono risorse che possono essere sfruttate da società sportive e tecnici per alleggerire il peso di un’attività per la quale vogliono continuare ad appassionarsi ed appassionare, perché non rilevarle, perché non porsi nelle condizioni di poterle sfruttare?

Come vedremo nella terza e ultima parte di questa introduzione lo psicologo dello sport può rappresentare senza ombra di dubbio questa risorsa.

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